"Tutti hanno una buona storia,
gli scrittori sono solo quelli
che si prendono la briga di scriverla”
[Hanif Kureishi][start]
Mi chiamo Amina Bakhash, ho quasi 16 anni e sono pakistana. Mio padre è morto quando avevo 13 anni. Ha avuto un infarto, che Dio lo accolga tra le sue braccia.
La mia famiglia è ricca. Papà aveva una fabbrica di vetro, di nostra proprietà da generazioni. A Multan abbiamo una bella casa, con un giardino interno per giocare e studiare. Ho tre fratelli: mia sorella Shazia, che è la più grande, mio fratello Saif e poi la mia sorellina Neha. Abbiamo studiato tutti all’Istituto Britannico e sappiamo l’inglese molto bene.
Non avevamo mai pensato di lasciare il Pakistan, ma Dio ha voluto così.
Quando mio padre morì, mio zio Arslan, il maggiore, venne da mia madre e disse: “Non devi preoccuparti di niente. Ora ci penso io a te e ai tuoi figli. Diventerete parte della mia famiglia” e lei era molto contenta.[MORE]
Invece, mio zio Arslan e l’altro zio Jibran, che sono i padroni della fabbrica insieme a mio padre, fecero venire gli avvocati e dissero che mia madre non poteva ereditare la parte che era di suo marito, perché è una donna. Mia madre allora chiamò l’avvocato di papà e disse che avrebbe fatto causa, perché quella era un’ingiustizia. Allora gli zii chiesero un accordo e fecero in modo che la fabbrica andasse a mio fratello Saif, perché era maschio. Mia madre accettò. Ma mio fratello era ancora minorenne, così lo zio Arslan chiese di diventare il suo tutore, dicendo che mia madre era vedova e non poteva prendersi cura di quattro figli. Il tribunale accettò la richiesta.
Mia madre non voleva crederci, gridava e accusava lo zio Arslan di aver corrotto il giudice. L’avvocato le consigliò di calmarsi, perché rischiava una denuncia e che lo zio le facesse portare via anche noi altre figlie; le disse di accettare la situazione, per il momento, e che ci avrebbe pensato lui a fare ricorso. Allora mia madre si calmò, ma io sapevo che non si era arresa. Intanto, però, mio fratello andò a vivere con lo zio.
Qualche settimana dopo vidi mia sorella Shazia che piangeva. Le chiesi: “Che cos’hai?”
Mi rispose: “Lo zio Arslan e lo zio Jibran dicono che sono un peso per la famiglia e che devo sposarmi!” Ma Shazia aveva solo 16 anni e non aveva ancora un fidanzato.
“Dicono che mi troveranno un buon marito, ricco, che mi farà stare bene. Così la mamma avrà un pensiero di meno”.
“E la mamma cosa dice?” le chiesi io. Ma Shazia non mi rispose.
Allora andai dalla mamma, a dirle che non era giusto che gli zii si prendessero Saif e adesso anche Shazia. “Tu devi fare qualcosa!” le gridai.
Lei rispose: “Se gli uomini sono cattivi, anche le leggi migliori non servono a niente! In questo Paese ci sono ancora troppe persone che pensano alla vecchia maniera!”
Una sera, poi, venne lo zio Arslan con Saif e si fermarono a cena. Io ero molto contenta di rivedere mio fratello, invece lui sembrava arrabbiato, ma non volle dirmi il perché. A un certo punto lo zio disse che il suo amico della banca gli aveva riferito che la mamma aveva prelevato tanti soldi dal conto di papà e le chiese il perché.
La mamma rispose: “Per prima cosa, il conto è anche mio. Poi, se proprio lo vuoi sapere, ho deciso di fare dei cambiamenti in casa e devo pagare gli operai”.
Lo zio fu soddisfatto di quella risposta. Poi lui e Saif se ne andarono.
Prima di dormire, però, Shazia mi disse perché Saif era arrabbiato: “Dice che la mamma non gli vuole più bene, che lo ha lasciato allo zio senza lottare”.
“Ma non è vero!” protestai io.
“Lo so. Infatti la mamma sta pensando qualcosa, io l’ho capito...”. Mi arrabbiai un poco, perché io invece non avevo capito niente e pensai che Shazia e la mamma avessero dei segreti. Ma poi pensai che Shazia era più grande di me e forse era giusto così.
Ormai il matrimonio di Shazia era deciso. La mamma aveva conosciuto il futuro marito e c’era in programma la festa del fidanzamento. Prima di quella data, però, la mamma aveva organizzato una gita sul fiume e aveva avuto il permesso di portare anche Saif.
Due giorni prima, ci chiamò e ci disse una cosa terribile: “Tesori miei, mi dispiace che ci siamo trovate in questa situazione, ma non so più cosa fare. I fratelli di vostro padre vogliono controllare la nostra vita: hanno già preso la fabbrica, Saif, ora Shazia e tra poco i nostri soldi. Forse mi chiederanno di risposarmi o di far sposare anche te, Amina. E io non posso permetterlo! Purtroppo, le vie legali non sono sicure e nel frattempo... chissà cosa succederà! Per questo, figlie mie, ho deciso che l’unica soluzione è partire...”.
“Per dove, mamma?” chiesi io spaventata.
“Dopodomani, con il battello, non faremo solo una gita. Andremo fino all’Indo e da lì fino a Karachi; prenderemo un aereo per la Svizzera, dove vostro padre ha un conto segreto. Con quei soldi, inizieremo una nuova vita in Europa. Io lavorerò e staremo bene, vedrete!” Noi sorelle non credevamo alle nostre orecchie! Neha si mise a piangere. Io e Shazia eravamo sconvolte: come è possibile che dei parenti ti costringano a lasciare la tua casa?
Shazia disse: “Mamma, ripensaci! Fa niente, mi sposerò e mio marito sarà buono con me e Saif diventerà maggiorenne e tornerà a casa con te e tutto andrà a posto, con un maschio di nuovo in casa! Mamma, ti prego, ripensaci!”
Ma lei era decisa: “L’uomo che hanno scelto per te non mi piace. Ha già 30 anni e tu non lo ami. Sono sicura che tuo padre non avrebbe voluto questo! Siamo stati traditi, ormai non mi fido di nessuno!” Piangevamo tutte, ma lei ci consolò: “Non vi preoccupate, ho pensato a tutto! Ho preso tanti soldi e ho già preparato dei piccoli bagagli per tutti noi. Compreremo il cibo lungo la strada, non ci mancherà nulla!”
“Ma poi” chiesi io, “torneremo o non torneremo mai più?” e pensavo alle mie amiche, alla mia camera, ai miei vestiti, che avrei dovuto lasciare.
La mamma mi guardò con tristezza: “Se vorrai, quando sarai grande, potrai tornare. Ma per ora dobbiamo abbandonare tutto. E mi raccomando! Non dite niente a nessuno!”
“Mamma, ma Saif lo sa?” chiese Neha.
“Non ancora. Gli spiegherò tutto sul battello”.
Il giorno della gita eravamo tutte tese. Ci eravamo truccate molto, per non far vedere che avevamo pianto. I domestici caricarono i bagagli prima che arrivasse lo zia Arslan e nessuno sospettò la nostra fuga. Appena partiti, la mamma andò in una cabina con Saif e li sentimmo gridare forte. Quando uscirono, avevano gli occhi umidi tutti e due, ma erano abbracciati. Ci preparammo quindi a goderci la gita.
Purtroppo, il motore ebbe un guasto e i marinai ci dissero: “Dobbiamo fermarci, faremo venire un nuovo battello!”
Subito la mamma si preoccupò, perché questo avrebbe di certo ritardato il nostro viaggio! Così mandò Saif a chiedere quanto tempo ci sarebbe voluto. Ma quando lui tornò aveva delle brutte notizie: “Mamma, credo che ci sia un inganno! Li ho sentiti dire: dobbiamo solo aspettare il vecchio Bakhash e vedrai che ci pagherà bene”.
“Ci hanno venduti, che Dio li punisca!” disse con rabbia la mamma, “Hanno raccontato tutto ad Arslan!” Pensò un poco, poi ci spiegò cosa aveva in mente e quindi disse ai marinai: “Mentre aspettiamo, noi scendiamo a fare un giretto! Avanti, ragazzi, prendete i vostri bagagli, sono pieni di cose da mangiare, faremo una bella merenda!”
E qui iniziò il nostro viaggio…
Andammo sulla strada e cominciammo a camminare, per allontanarci il più possibile dal fiume. Neha voleva chiedere un passaggio, perché era stanca, ma non la mamma non si fidava. Saif ebbe anche l’idea di togliere le carte dai cellulari, per non farli trovare. Dopo circa mezz’ora di cammino, arrivammo a un gruppo di case e a una fermata di autobus, che ci avrebbe però portato a est, fino a Quetta, non a sud, verso Karachi.
“Per il momento l’importante è far perdere le nostre tracce! E poi, c’è un aeroporto anche a Quetta, vuol dire che partiremo da là” disse la mamma.
Ci fermammo ad aspettare, insieme a dell’altra gente, arrivata prima di noi. Tutti ci fissavano. Forse perché le persone ben vestite, come eravamo noi, di solito viaggiano con l’automobile privata. Anche sul bus tutti ci guardarono e una donna ci raccontò una sua storia molto triste, per farsi dare del denaro.
Arrivammo a destinazione a notte fonda. La mamma lasciò delle monete alla donna del racconto e poi chiese all’autista dove potevamo trovare un albergo, però economico. Ce ne indicò uno poco lontano e la mamma diede delle monete anche a lui. Ci trovammo quindi in una stanzetta con due letti e ci mostrarono una specie di bagno con il lavandino. Era davvero un posto orribile, ma pensai che la mamma aveva voluto risparmiare i soldi, per il resto del viaggio Ci sistemammo: Saif con Neha, io con Shazia; la mamma, invece, volle a tutti i costi dormire per terra. Forse pensava di meritare una punizione per tutto quello che era successo. Il giorno dopo prendemmo un taxi fino all’aeroporto. Andammo al banco di una compagnia aerea, il commesso iniziò a battere i tasti del suo computer, poi chiese i nostri passaporti. Prese quello della mamma e lo guardò a lungo, poi chiese: “Ma questo è suo?”
“Certamente” rispose la mamma, “forse la foto è un po’ vecchia...” “Aspetti qui, per favore” disse l’uomo e se ne andò con il documento. “Mamma, mi scappa la pipì!” disse Neha.
“Per favore, Amina, accompagnala tu, mentre aspettiamo” mi disse la mamma. Mi guardai intorno, in cerca dei bagni, e mi spostai un poco, con Neha a mano, per non perderla. Vidi una cosa che mi fece insospettire, così tornai subito indietro. “Mamma, il commesso è andato a parlare con la polizia!” “Cosa?” chiese la mamma, sbalordita. Allora mise le mani oltre il banco e girò lo schermo del computer. Passaporto segnalato c’era scritto.
“Lo zio Arslan ci ha denunciato!” disse Shazia, “ora come faremo?”
“Non possiamo più prendere l’aereo, figli miei. Anzi, è meglio se scappiamo anche da qui!” “Ma, e il tuo passaporto?” chiese Saif.
“Fa niente. Forse basteranno i vostri. O riuscirò a farne un altro. Ora andiamocene, svelti!”
“Ma io non ho fatto la pipì” protestò Neha, ma nessuno la ascoltò.
Tornammo verso la città e ci fermammo in un altro albergo. La mamma, Saif e Shazia andarono in giro per capire come continuare il viaggio. Rimasero fuori quasi tutto il giorno e io e Neha avevamo paura che li avessero presi e che saremmo rimaste lì da sole! Il padrone della stanza ebbe pietà di noi e ci portò da mangiare, una specie di dhal e del chapati. Era un cibo semplice, ma noi eravamo affamate e lo mangiammo tutto. Alla sera la nostra famiglia tornò. Avevano dei vestiti diversi, da poveri, e ne avevano anche per noi. Neha non voleva mettere quella roba e pianse, ma alla fine si arrese.
“Ecco il nostro programma” disse poi la mamma, “domani prenderemo l’autobus fino a Kandahar…” “Ma è in Afghanistan!” dissi io, “Lì non è sicuro!”
Ma la mamma proseguì: “Lo so, ma a Kandahar possiamo chiedere aiuto come rifugiati e forse potremo arrivare in Europa viaggiando con altri, sarà più sicuro. Inoltre, fuori dal Pakistan sarà più difficile trovarci...”
Partimmo di nuovo. Dopo qualche ora di viaggio trovammo una lunga coda di mezzi e l’autobus si fermò. Alcuni passeggeri scesero, portando tutti i loro bagagli.
“Siamo arrivati?” chiese Neha. La mamma non lo sapeva.
Una signora davanti a noi si voltò e disse, a bassa voce: “Quelli sono i migranti senza documenti. Passano la frontiera a piedi e poi risalgono sull’autobus dall’altra parte”.
La mamma si allarmò e decise che dovevamo prendere quella via anche noi: non poteva permettere di essere arrestata o di lasciarci soli. Ci fece scendere in fretta, per non perdere di vista quelli usciti prima di noi, che di certo sapevano la strada, mentre noi no. Riuscimmo a unirci al gruppo e tutti ci guardarono male. Forse perché eravamo tanti, non so. Camminammo in silenzio, al coperto. Poi incontrammo degli uomini, che fecero fermare tutti e passarono vicino a ogni migrante. Capii che chiedevano dei soldi. La mamma diede quello che le chiesero: una grossa somma, visto che eravamo in cinque! Poi ci accompagnarono per il resto del percorso. A un tratto, quelli davanti a noi gridarono qualcosa e tutti si misero a correre. Ci mettemmo a correre anche noi e sentimmo degli spari. Forse era la polizia, che cercava gli irregolari. Un migrante che era poco avanti a noi fu colpito e cadde a terra. Gli passammo vicino e vidi che era ferito a un braccio e che cercava di rialzarsi. Nel mio cuore avrei voluto aiutarlo, ma capivo che era impossibile. Non lo ritrovammo, poi, sull’autobus. L’autista ci fece risalire, come se niente fosse.
Quando fummo di nuovo ai nostri posti, la mamma ci abbracciò tutti piangendo: “Perdonatemi, figli miei, perdonatemi! Non volevo che le cose andassero in questo modo, non volevo mettervi in pericolo! E che anche Dio mi perdoni!”
“Mamma, forse è meglio tornare indietro...” disse Saif e credo che tutti lo pensavamo.
“No, non voglio una vita da prigionieri, soprattutto per voi. Vedete come è potente lo zio Arslan, ci metterà tutti contro! E se prima aveva almeno dei modi gentili per fare le sue porcherie, ora che abbiamo fatto questo non avrà più nessun riguardo. No, figli miei, dobbiamo proseguire. In Europa abbiamo i nostri soldi, che potremo usare liberamente. Avanti, fatevi coraggio...”
In poche ore arrivammo a Kandahar e subito vedemmo dei tendoni con i simboli dell’Onu: erano le stazioni per i migranti, dove ti registravano e ti dicevano cosa fare. Ci mettemmo in fila, fiduciosi. Intorno, c’era una gran confusione: tutti parlavano, i bambini strillavano, la gente si spostava in ogni direzione. Arrivò il nostro turno.
Una donna senza velo ci parlò in una lingua che non sapevo, ma la mamma disse: “Possiamo parlare in inglese, se lo sa”.
La donna sembrò stupita, ma iniziò a usare l’inglese e ci capimmo. La mamma spiegò tutta la nostra situazione e del passaporto, mostrò i nostri, disse che avevamo del denaro, se era necessario.
Quella ascoltò, poi disse: “Faremo richiesta di rifugio politico al governo afghano e chiederemo un nuovo documento. Nel frattempo, potete aspettare al campo di raccolta. Dovete trovarvi un posto. Il regolamento è all’ingresso. Vi chiameremo noi quando avremo i documenti”, ci diede dei fogli e ci indicò la direzione.
Vedemmo una lunga recinzione e all’interno tante persone da sembrare un formicaio. Al cancello una specie di guardia volle vedere i nostri fogli e ci fece entrare. Il regolamento era facile: vietato occupare il posto degli altri; vietato rubare; vietato trovarsi fuori dal campo oltre la preghiera di salat al-maghrib; la cena veniva distribuita dopo la chiusura. C’erano dei container che servivano da bagni e lungo la parete erano attaccati dei rubinetti. La mamma cercò un posto vicino a uno di questi, ma non troppo: la puzza era infatti quasi insopportabile. Gli altri rifugiati avevano costruito dei ripari dal sole con cartoni, lamiere, stoffe e corde. Noi, per il momento, non avevamo nulla. Restammo in quel campo più di una settimana. Ogni giorno facevamo le file per il cibo e l’acqua o cercavamo rottami per costruire un riparo. A turno, però, dovevamo restare a sorvegliare il nostro posto, per non farcelo occupare. Più di una volta, infatti, vedemmo della gente che arrivava, buttava via la roba che trovava e diceva che lì era suo! La mamma andò anche a chiedere informazioni sui documenti, ma senza successo. Parlando con le altre famiglie, scoprimmo che c’erano due tipi di persone: quelli che restavano e quelli che se ne andavano. I primi erano troppo poveri per muoversi o erano vecchi o malati, aspettavano la burocrazia ed erano lì da mesi; i secondi erano quelli che non avevano speranza di aiuto o non volevano aspettare e allora provavano il grande viaggio.
Saif si spazientiva sempre più: “Siamo venuti via dalla nostra bella casa, per essere di nuovo liberi in Europa. Cosa ci facciamo qui? Stiamo diventando degli straccioni!”
La mamma non sapeva cosa fare, forse temeva di commettere un altro sbaglio, di metterci di nuovo in pericolo. Ma alla fine decidemmo che era meglio muoversi. Sapevamo che molti pakistani erano arrivati in Europa, per cui pensammo che fosse una cosa facile, se così tanti giungevano a destinazione! Chiedendo qua e là, capimmo che c’erano delle specie di carovane, che partivano quasi tutti i giorni, sia a piedi che con i camion o con i bus. La scelta dipendeva da quanto potevi spendere. Decidemmo per il camion, per avere dei soldi di scorta in caso di emergenza. Destinazione: Herat. Restammo seduti in un cassone aperto per tutta una giornata, sotto il sole, in mezzo alla polvere, schiacciati che non si poteva quasi grattarsi se ti veniva un prurito. Se qualcuno sveniva, nessuno se ne accorgeva, perché rimaneva seduto lo stesso, sorretto dai vicini. L’autista non si fermò mai, non solo per mangiare o bere, ma nemmeno per i bisogni del corpo, per cui in poche ore alla puzza di sudore si aggiunse quella di urina e, credo, anche di altro. Una volta ad Herat, vedemmo dei militari italiani. Provammo a chiedere a loro, ma non ci capivano, nemmeno in inglese. Ci indicarono un campo, dove trovammo i soliti tendoni dell’Onu. La mamma ci fece mettere in fila per la visita medica, perché aveva saputo che prima ti facevano fare una doccia. Ci diedero una bottiglia con un liquido arancione, per reidratarci, e delle pillole di vitamine. Tutto sommato, però, stavamo bene. Un uomo ascoltò di nuovo tutta la nostra storia, in inglese, e ci disse le stesse cose della donna a Kandahar. Restammo a Herat due giorni e Saif fece amicizia con gli italiani. Uno di loro ci portò del cibo della sua mensa e ci fece dormire, noi soli, in un camion vuoto, parcheggiato fuori dalla loro base. Ci fece capire che potevamo stare tranquilli, che di notte c’era lui a fare la guardia.
Partimmo di nuovo, diretti a Teheran. La mamma non volle più sottoporci all’esperienza del camion, per cui tirò fuori da un nascondiglio i suoi gioielli, per scambiarli con un passaggio sull’autobus. Di tutte le belle cose che aveva, la mamma aveva scelto solo le due più care, da portare in Europa: l’anello dei dieci anni di matrimonio e gli orecchini dell’ultimo compleanno con papà.
Mi venne da piangere: “Mamma, non puoi vendere i tuoi ricordi” dissi, “prendi il mio cellulare, in cambio!”
“Anche il mio, anche il mio!” disse Shazia.
“E io ho ancora l’orologio, nella borsa...” aggiunse Saif.
La mamma si commosse: “Grazie, figli miei, grazie! Vi prometto che in Europa vi ricomprerò tutto, e anche di più!”
Dopo qualche ora di viaggio, però, l’autista si fermò e disse di scendere, perché il motore si era rotto e bisognava proseguire a piedi. Tutti protestarono e volevano indietro i loro soldi. Ma l’autista rispose che lui non li aveva, li aveva tenuti l’uomo a Herat che ci aveva fatto salire. Era vero, mi ricordavo di quel particolare. Allora molti iniziarono a prendere le loro cose per andarsene, rassegnati. Alcuni invece restarono, dicendo che prima o poi sarebbe passato un altro mezzo e li avrebbe caricati. Ma lì non c’erano né cibo né acqua, mentre lungo la strada avremmo potuto trovare delle abitazioni e chiedere aiuto. Decidemmo di unirci alla colonna dei migranti. Ogni tanto qualcuno cadeva e lo si aiutava a rialzarsi, ma non sempre quello ce la faceva e allora rimaneva là, seduto, cercando un po’ di ombra tra le rocce. I primi che incontravano delle case potevano sperare in un po’ di acqua o del cibo, ma quando arrivavano gli ultimi non c’era più niente. Passarono dei camion e la gente chiedeva un passaggio, ma spesso erano già carichi e non si fermavano. Allora, i più giovani correvano e si aggrappavano alle sponde del cassone, cercando di guadagnare almeno qualche chilometro, prima di cadere o di essere cacciati. A volte, quelli davanti a noi uscivano precipitosamente dalla strada per nascondersi. Noi facevamo lo stesso. E poco dopo passavano i mezzi dell’esercito. Poi si ritornava a camminare. Arrivò la sera e la colonna si fermò. Non avevamo la minima idea di dove fossimo o quanta strada mancasse. Ci gettammo a terra, rannicchiandoci più che potemmo e coprendoci con i bagagli, per affrontare il freddo della notte.
La mattina ci svegliammo da soli. Gli altri migranti erano partiti prima di noi! Riprendemmo il cammino, sempre più disperati, cercando un paese o una casa, che potesse accoglierci per qualche ora. Improvvisamente, arrivò un’auto a tutta velocità, ci sorpassò, ma poi si fermò e tornò indietro. Finalmente qualcuno aveva pietà di noi! Uscì un uomo. La mamma si avvicinò per ringraziarlo. Ma quello, che era sembrato così gentile, le diede uno schiaffo e la fece cadere per terra. Subito Saif cercò di attaccarlo, ma l’altro era troppo forte, buttò per terra anche lui e cominciò a dargli dei calci.
La mamma si rialzò, si mise davanti e disse: “Basta! Dimmi quello che vuoi, ma lascia stare il ragazzo!”
“Avanti, salite tutti sull’auto! E niente scherzi...” ordinò e tirò fuori un coltello. Eravamo terrorizzati e obbedimmo, aiutando Saif.
“Noi non abbiamo denaro, abbiamo perso tutto!” disse la mamma.
“Zitta puttana!” gridò di nuovo l’uomo.
Per tutto il viaggio nessuno parlò più. A un tratto, ci staccammo dalla strada e andammo verso un piccolo villaggio. La macchina si fermò un po’ fuori, dove c’era una casa isolata.
“Avanti, scendete!” ordinò quel criminale.
“Aspetta, non farci del male! Posso darti questo...” implorò la mamma e mostrò il suo oro.
Quello sghignazzò, perché la mamma era stata ingenua. Le strappò tutto di mano e disse: “Con questi e con quattro donne da vendere, sono un uomo ricco! Ma ora, voglio stare un po’ da solo con questa ragazza...” si avvicinò a Shazia, la prese per i capelli e voleva tirarla dentro la casa. Noi tutti ci gettammo su di lui, che faticò a buttarci di nuovo per terra.
“Basta, vi ammazzo tutti!” gridò.
Allora la mamma disse: “Se ci uccidi, non avrai il tuo guadagno! Lascia stare la ragazza, ora, e ascolta la mia proposta!”
“Avanti, parla!” ordinò lui.
“No, non qui” impose la mamma, “entriamo un momento...”
Quello accettò: “Niente scherzi, però, puttana, o ti ammazzo! Tu sei la più vecchia e vali meno di tutte!”
Quando tornarono, l’uomo sembrava contento, mentre la mamma aveva una faccia strana. Quel criminale ci fece entrare tutti nella casa e ci chiuse in una stanza. Più tardi, ci gettò del barbari e una bottiglia di acqua.
La mamma ci spiegò la sua idea per scappare: “Domani mattina, lo chiameremo fingendo un’emergenza. Quando lui entrerà, gli salteremo addosso come abbiamo fatto prima.. Tu, Neha, invece, corri di là e prendi uno dei legni che ho visto vicino al camino, oppure una padella. Torna qua e lo dài a tuo fratello. Tu, Saif, picchia forte in testa, più forte che puoi: te la senti? Benissimo. Appena cade a terra, lo colpiremo di nuovo, finché non si rialza più”.
“Dobbiamo ucciderlo, mamma?” chiesi io.
“No, no, tesoro” mi rassicurò la mamma, “solo farlo svenire, così non può inseguirci”. “E poi?” chiese Saif.
“Poi scapperemo con la macchina” disse Shazia.
Ma la mamma osservò: “E come? Io non so guidare!”.
“Io sì!” esclamò soddisfatta mia sorella, “Me l’ha insegnato papà, in giardino!”
Il piano era pronto, ma lo stesso quella notte faticammo a dormire, presi dalla paura, dalla fame e dalla sete. Io pensavo: e se quell’uomo non fosse più stato solo? E se avesse ferito uno di noi con il coltello, o peggio?
Sentii poi Shazia che chiedeva alla mamma: “Come hai fatto a convincerlo?”
E lei che rispondeva piano: “Perdonami! Gli ho detto che se ti lasciava vergine valevi di più… e basta...”. Ma dopo un po’, sentii che piangeva.
Non fu necessario attirare quel criminale. Si presentò all’alba, gridando: “Ehi, puttana! Voglio lo stesso pagamento che mi hai dato ieri!” e intanto si slacciava i pantaloni.
Ci colse di sorpresa e noi cominciammo a urlare, ma la porta era rimasta aperta, così la mamma gridò a Neha: “Vai! Vai!”, mentre quello le diceva: “Dove scappi, puttanella? Vieni qui!” e tirava fuori il coltello.
Ma mentre era voltato per prendere Neha, noi lo spingemmo e lui cadde, perché i pantaloni gli erano scivolati lungo le gambe e lo intralciavano. Iniziammo a picchiarlo e Saif gli schiacciò la mano con un piede per far cadere l’arma. Intanto Neha era tornata. Facemmo come aveva detto mamma. Ancora oggi non so se lo abbiamo ucciso, ma spero di sì, che Dio mi perdoni! Cercammo le chiavi della macchina, prendemmo le nostre cose, compresi i gioielli, tutto il cibo e l’acqua che riuscimmo a trovare e scappammo. In qualche modo tornammo sulla strada o, almeno, ci sembrò quella. Quando finimmo la benzina, abbandonammo l’auto e ci preparammo a ricominciare la marcia. Prima, però, la mamma prese da Saif il coltello di quell’uomo e volle tagliare i capelli a tutte noi sorelle e toglierci il velo.
“Perché, mamma, perché? Dio non vuole!” gridavamo noi.
“Dio è misericordioso e mi perdonerà. Da oggi vi chiamerete Shaz, Amin e Neam”. Io protestai: “Almeno Neha no, mamma: è ancora una bambina, nessuno oserebbe...” “Zitta, basta!” gridò la mamma, “Voi non sapete di cosa sono capaci quegli animali!”
Allora, accettammo di perdere i nostri bellissimi capelli. Poi camminammo, finché le forze ci mancarono e ci mettemmo seduti, ad aspettare la morte. Non riuscivamo nemmeno più a piangere.
Ci trovò un vecchio pastore. Ci diede un po’ di latte delle sue capre e ci fece segno di andare con lui. Lo seguimmo. Ci lasciò dormire nel riparo dei suoi animali. Il giorno dopo, cercammo di ringraziarlo, facendo piccole faccende domestiche. Non eravamo capaci di fare quei lavori, ma il vecchio ci guardava con benevolenza. Ci offrì ancora del latte e una specie di pastirma. Poi diede alla mamma degli stracci, indicò Shazia e poi il suo petto. La mamma capì. Le fasciò il seno, per nasconderlo meglio. Restammo in quella casa ancora un giorno, poi la mamma volle partire e il pastore ci indicò la strada. Ci fece capire che presto avremmo trovato delle case. Ci diede acqua e un po’ di barbari, che Dio lo accolga.
Come promesso, trovammo un villaggio, che era visitato dai turisti stranieri, per cui c’erano un piccolo hotel e dei ristoranti, dove la mamma cercò lavoro per sé, Shazia e Saif. Alla sera, potevamo portare via gli avanzi delle cucine. Un medico di Teheran, ospite nell’albergo, vide me e Neha ed ebbe pietà di noi. Ci portò da mangiare e fu molto stupito quando scoprì che eravamo femmine, pakistane e che parlavamo inglese. Ci chiese la nostra storia e propose alla mamma di portarci tutti fino alla capitale, senza pagare. Lei decise di fidarsi e accettò.
Una volta arrivati, quel dottore, che Dio lo benedica, ci disse che, se volevamo, potevamo restare a lavorare per lui, nella sua casa.
La mamma fu molto grata, ma precisò: “Solo finché non avremo abbastanza soldi per andare in Svizzera”.
Ci fermammo a Teheran più di un anno. Quando la mamma cominciò a parlare di partenza, noi non volevamo: “Stiamo bene qui, abbiamo un tetto e da mangiare, abbiamo imparato la lingua e trovato degli amici. Non vogliamo partire più!”
Ma la mamma era irremovibile: “Viviamo come clandestini e servi, senza diritti. Non potete andare a scuola, non potrete avere un buon lavoro. Non ho rischiato di farvi morire per darvi questo!”
Allora un amico del dottore chiese informazioni a un suo conoscente all’ambasciata pakistana e seppe che tutti i nostri passaporti erano ancora ricercati. Non potevamo usarli, ci toccava di nuovo la via dei migranti. Questa volta, però, avevamo denaro, per cui decidemmo di prendere un autobus, nonostante i rischi che anche questo implicava.
Il viaggio durò quattro giorni, tra fermate e passaggi clandestini a piedi attraverso le frontiere, cambi di autista e perfino di mezzo. Il trucco dei capelli tagliati funzionò, perché tutti benedicevano la mamma, che aveva quattro maschi. Arrivammo così a Istanbul, la porta per l’Europa. Anche qui, i migranti erano un affare e quindi pagammo per unirci a un gruppo con la guida.
Capii che c’era una specie di percorso, che usavano tutti, anche se era pieno di pericoli. Si andava per un po’ nei camion, poi si doveva camminare per prendere quello successivo. Chi veniva scoperto dalla polizia o dall’esercito, era finito: veniva arrestato, perfino picchiato. Però, si incontravano anche persone gentili, che ci accoglievano e ci davano un po’ di sollievo. Ogni tanto c’erano degli accampamenti, a volte perfino con i medici europei e dei volontari che cucinavano o ti davano vestiti puliti. E c’erano i giornalisti e la Tv. Mi chiesi come mai queste persone avessero il permesso di aiutarci, visto che eravamo dei clandestini fuori-legge. Forse, perché sapevano che non eravamo dei criminali e che eravamo senza documenti perché ce li avevano rubati, ritirati o, come noi, segnalati. L’Europa mi deluse molto: mi ero aspettata tecnologia e grandi città piene di persone istruite. Invece, vedevo solo alberi, montagne, villaggi e occhi che ci guardavano con disprezzo. Ho saputo poi che quella era l’Europa dei poveri e che un’altra barriera ci divideva dall’Europa dei ricchi.
L’ultima frontiera che attraversammo fu una delle più pericolose: la polizia poteva spararti oppure ti aspettava dall’altra parte e ti riportava indietro. Noi tentammo di passare per tre volte, sempre in modo diverso: a piedi, di notte, insieme ad altri... non funzionò mai. Eravamo ormai senza soldi, non sapevamo più come fare! Alla fine alcuni ci dissero che si poteva nascondersi nei camion-cisterna, perché quelli non venivano controllati tanto spesso. Decidemmo di provare, insieme ad altri dodici. Quel passaggio ci costò i gioielli della mamma, che eravamo riusciti a salvare fino a quel momento.
La partenza era una stazione di rifornimento dell’autostrada. Un uomo ci aiutò a entrare, uno alla volta, dal buco superiore, con una scala di corda. Il fondo era ricoperto da una specie di fango nero che puzzava di benzina. C’erano delle fessure per farci respirare, ma lo stesso mi veniva da svenire. Per fortuna, il viaggio durò poco e presto ci trovammo in un’altra stazione. Due dei nostri compagni furono tirati su di peso, perché avevano perso i sensi. Uno, invece, aveva il viso nero ed era morto. Forse, era caduto a faccia in giù ed era soffocato in quel fango. Pregammo per lui.
Ci dissero: “Ora correte. Attenti alla polizia” e ci indicarono la direzione. Intorno a noi vedevo solo montagne e mi aspettavo altre lunghe marce. Nell’Europa ricca, invece, ci sono tanti villaggi, a poca distanza uno dall’altro, e quindi ne trovammo presto uno.
La mamma ci spiegò: “Su quella torre, vedete, c’è il simbolo del Cristianesimo. Forse ci sono dei missionari e ci aiuteranno!”
Infatti, una donna ci indicò il direttore di quella missione, che era un religioso. Ci accolse e capimmo che non eravamo i primi. Arrivò poi un giovane che sapeva l’inglese e che ci disse che eravamo in Italia. Allora finalmente ci sentimmo al sicuro, perché gli italiani erano stati gentili con noi, a Herat. Ripetemmo un’altra volta la nostra storia. Dopo qualche giorno ci accompagnarono a un campo di raccolta, che però era una casa vera e propria, con una stanza per ogni famiglia e dei veri bagni. Ci sembrò la fine di un incubo…
In Pakistan non eravamo più liberi. Nel viaggio forse saremmo morti. Ora sappiamo che vivremo e che saremo liberi.
- Grazie, Amina, per averci raccontato la tua storia, è stata molto interessante! E complimenti per il tuo inglese, è davvero ottimo!
- Grazie…
- Cosa farete, ora?
- Aspettiamo documenti per andare in Svizzera. Abbiamo chiesto stato di rifugiati, ma non hanno risposto.
- Vi trovate bene, qui in Italia?
- Sì. Caritas ha trovato casa per noi. Mamma lavora e Shazia. Io vado a scuola e Saif e Neha. Compagni sono simpatici e prof sono buoni.
- Anche il tuo italiano è molto buono!
- Così-così...(ride)[end]
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Storia Segreta di Angelica Li è un giallo, ma solo in apparenza.
Angelica Li ha solo 13 anni quando scompare misteriosamente dal reparto di pediatria di un grande ospedale milanese, un mese prima di essere dimessa e dopo avere vinto una dura battaglia contro la leucemia. Possibile che sia stata rapita?
Le indagini per ritrovare la ragazzina si intrecciano con la storia di una casa editrice e con le storie personali di chi, in un modo o nell’altro, ruota attorno ad Angelica.
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