L’Inferno degli inferni (Il caso Archambeau) di Antonio Blunda

E’ capitato, eccome. Ho avuto voglia di non frenare neppure per un secondo la mia natura, e tuttavia, al contempo, so bene d’aver resistito con forza e volontà, e di non aver mai tradito la mia innocente anima, mai, per nessun motivo.
E’ facile la tentazione del male, è facile cadere. Ho odiato alcune persone, ed avrei anche ucciso, sì, lo confesso. Avrei voluto uccidere, in certi momenti. Ma io dico, e posso giurarlo, non è mai accaduto, e mai sarebbe potuto accadere. Se mai ho ucciso qualcuno, è stato soltanto nei miei fugaci pensieri, e per pochi miseri istanti.
Sia pure fossi stato colpevole dell’ideazione di atti spregevoli e orribili, alla fine sono sempre ritornato sui miei passi, a quel sempre pacifico di me.
Se avessi commesso qualcosa di orribile, il senso di colpa mi avrebbe distrutto; l’ansia - al pensiero di quel che di irreparabile e terribile avrei potuto fare a qualcuno - mi ha in qualche modo protetto da me stesso, sono sempre stato più forte delle mie umane debolezze.
[MORE] Ben oltre l’uomo, so invece che esistono numerose specie viventi, le quali, seppur così diverse dalla nostra, sono in grado di dimostrare un’umanità elevata, molto più di quella che possiamo esprimere noi, ben più di quanta ne avrebbe un’intera generazione di persone che attraversano questa terra.
Gli uomini rappresentano la peggiore espressione della violenza animale, questo è il rovescio della nostra contraddittoria natura: sappiamo amare e odiare, aiutare e distruggere, salvare e uccidere.
Abbiamo pronunciato e scritto: “civiltà”, ma quanta assenza, quale vuoto è contenuto in questa parola impropria.
Se messi lungamente alle strette, abbandoniamo la nostra evoluzione, cancellando d’un colpo millenni di adattamenti e istruzioni che ci hanno formato e portato a divenire ciò che siamo.
C’è un seme innato e nascosto in noi, che germoglia in determinati momenti, e che riaffiora in quella misera parte oscura che non è mai scomparsa, ma rimasta addormentata, e invero, quel Male che credevamo cancellato, prende il sopravvento, ed affiora la disumanità della nostra specie in tutto il suo orrore.
Vale la pena di restare a questo mondo? Sì, poiché il mondo è meraviglioso, e tutti non amiamo altro che vivere.
Ma il vero problema è che siamo costretti, costretti a condividerlo con gli esseri umani.

**** **** ****

Avevo preso servizio come guardiano del faro d’Ar-Men - costruito all'estremità della Chaussée de Sein (punta occidentale della Bretagna), su quel tratto marino ben conosciuto per la sua pericolosità ed i frequenti naufragi, ragion per cui s’era pensato di costruirvi numerosi fari – il giorno dopo quello della sua inaugurazione, avvenuta il 30 agosto 1881.
All’epoca in cui fui assunto, avevo soltanto diciannove anni, e nessuno mi avvertì né mi spiegò per bene le cose, forse per non farmi intimorire e ripensarci.
Ci sono tantissimi fari al mondo, e ovviamente non di meno in Francia, tuttavia Ar-Men non è un faro come gli altri. Esso è soprannominato “l’inferno degli inferni”, e ve ne è ben motivo.
Le onde, nei momenti di maggiore intensità delle tempeste, sono alte una ventina di metri, e in questi anni mi sarà accaduto di osservarne anche di più enormi.
Quelle più potenti che si infrangono, in rarissime occasioni (all’incirca una o due volte in cento anni) riescono a sovrastare il faro ben oltre la cima, e all’impatto con esso, il fragore e le vibrazioni fanno tremare qualsiasi cosa, lasciando temere che possa accadere il peggio: che il faro crolli da un momento all’altro, se soltanto una di quelle onde vi si abbatta con estrema veemenza.
L’intensità della tempesta il giorno dopo lascia sempre un segno: può trattarsi d’un vetro rotto o incrinato della lanterna (che va immediatamente sostituito), o il crollo delle suppellettili e di tutto quel che si appende alle pareti, che una volta su due finisce sul pavimento, e talora le pietre del basamento esterno di terra sono come “strappate” dall’impeto del mare.
Non c’è un bagno, e le uniche luci artificiali a disposizione sono alcuni lumi a petrolio; c’è una cucina abitabile, con una discreta dispensa, e ciascuno dei guardiani (siamo in due) ha la sua confortevole camera da letto, con un buon materasso ed una piccola stufa a legna.
Uscire fuori sulla galleria, attorno alla lanterna (ad oltre trenta metri d’altezza), a seconda dei momenti poteva rivelarsi fatale. Un’onda fortissima, che magari s’era sottovalutato, poteva arrivare fin lassù, investirti e gettarti di sotto, e non meno era il pericolo che si correva d’esser risucchiati via dall’artiglio del mare, passeggiando o stazionando troppo vicino al perimetro della scogliera.
Ad ogni modo, la vita al faro d’Ar-Men non era poi così male.
A voler far paragone, la vita quotidiana era equiparabile a quella dei marinai imbarcati su una nave, con lunghi periodi di isolamento, conseguenti ai turni di lavoro assegnati.
Trascorrevo trenta giorni in servizio al faro, quasi in solitudine (le uniche compagnie erano i colleghi di lavoro e i cormorani di passaggio), e poi dieci giorni di riposo a terra, presso una stanza del "Grand Monarque", (una casa appartenente all'amministrazione dei Fari e Fanali), sull’ île-de-Sein. Tuttavia, il cambio turno poteva essere anche annullato da un momento all’altro per via del cattivo tempo.
A meno che le condizioni del mare non lo consentissero, il battello impiegato al rifornimento viveri ed al cambio turno, non si accostava mai ad Ar-Men. L’unico modo per sbarcarvi, era quello di tendere un cavo tra il faro e l'albero del battello, ed in tal modo sia gli uomini che i viveri e gli strumenti necessari venivano trasportati (a pochissimi metri sull’acqua) con il semplice aiuto di un verricello, manovrato a mano dai due guardiani dalla piattaforma ai piedi della torre.
I giorni di servizio non erano affatto pesanti, e trovavamo anche il tempo per darci alla pesca, per leggere libri, magari anche per scrivere, far navi in bottiglia, e se il clima d’estate lo consentiva, prendersi il sole in santa pace tra i cormorani.
Abbastanza semplice. Insomma, ci si abituava sostanzialmente a tutto: sia all’estremo silenzio (nei rarissimi momenti di calma piatta), che al fischio imperioso del vento, al suono pacato dei flutti, e come già detto, al boato fragoroso delle onde più agitate (ch’io paragonavo a valchirie desiderose di mordere il faro e farlo a pezzi); e quando giungevano le onde più potenti, s’udiva un rombo così inquietante da far accapponare la pelle ai coraggiosi e lasciar pregare gli atei.
Alla fine però, se sapevi adattarti, “l’inferno degli inferni” ti accoglieva bene.

II

Il 18 ottobre 1913 – dopo che in un trentennio s’erano avvicendati numerosi compagni di lavoro - giunse sull’isola un nuovo guardiano, un certo Guillame Laferriere.
All’incirca sui cinquanta, alto e robusto, appena brizzolato, voce grave (le rare volte che ne avevo udito la voce: non era quasi mai di troppe parole), sguardo perennemente accigliato, di quelli che hanno il sole sugli occhi o l’aria di chi sta per prenderti a pugni; il suo volto consumato dalle intemperie, poiché (in precedenza era stato un pescatore) il mare l’aveva davvero vissuto, e frequentato come si frequenta un vecchio amico con il quale cammini a braccetto.
Nonostante l’aspetto poco rassicurante – da marinaio di bettole malfamate, di quelli che alzato facilmente il gomito iniziano una rissa per un niente – s’era mostrato invece un brav’uomo, assai laborioso e diligente, persino discretamente colto, e talora divertente, nelle occasioni in cui andava di parlare, momenti in cui, trovandosi di buon umore ed in vena di chiacchiere, tirava fuori storie del suo passato.
Sia di giorno che di notte ci si avvicendava in cima alla lanterna, con turni ciclici di quattro ore, affinchè fosse sempre assicurato il buon funzionamento della stessa, il controllo e l’osservazione del tratto marittimo a nord ( il compito più delicato, nel caso in cui si avvistassero navi all’orizzonte che si fossero troppo ravvicinate, ed allora dovevamo far suonare la sirena per avvisare o della nebbia o della scogliera).
Guillame, quando era il suo turno, se ne stava lassù a fumare la pipa e talvolta a leggere sino a notte fonda, con un lume a petrolio o con la sola luce della luna piena, tenendo comunque sott’occhio il mare.
Io e Guillame lavorammo insieme in tranquillità per circa due anni, senza mai avere alcun dissenso o diverbio.
Nonostante fossimo coetanei, ero io il capo tra i due, per via dell’anzianità di servizio, e Guillame questo lo aveva sempre accettato, e tenuto in considerazione, rispettandomi senza alcuna discussione.
Poi giunse l’inverno del 1913, un inverno che non potrò mai più dimenticare.
I nostri rapporti cominciarono a cambiare la sera del venti ottobre, quando al telegrafo ci informarono dell’arrivo di una brutta tempesta.
Ci sarebbero state delle difficoltà per l’ arrivo e l’attracco del battello, programmato per il giorno dopo.
Bisognava attendere, e vedere se il tempo all’indomani ci avrebbe graziato.
E’ un dato di fatto, purtroppo, per mia ventennale esperienza, che qui le tempeste durino anche parecchie settimane. Pertanto, per metterci al sicuro e tirare avanti nei giorni seguenti, ne discutemmo, e valutammo di razionare l’acqua potabile e i viveri, nell’ipotesi in cui, all’indomani, l’attracco fosse impossibile.
Il rischio di morire di sete è elevato e concreto, se non si beve nulla per tre o quattro giorni.
Quanto alla fame, invece, un uomo può resistere molto più tempo (all’incirca un mese) se non ha alcun cibo a disposizione. Incrociammo le dita.
Purtroppo, come si era temuto, il ventuno di ottobre il tempo non migliorò affatto, ed in breve ci giunse la conferma che il battello (con il cambio guardia e i viveri necessari per tutto un mese) non sarebbe partito.
Razionare acqua e cibo. Così avevamo previsto, e così fu attuato.
In verità, c’era abbastanza acqua per resistere a lungo: la pioggia della tempesta era in effetti acqua da bere. Ma quanto ai viveri, calcolammo che quelli residui della dispensa sarebbero bastati al massimo per i successivi dieci giorni. La tempesta sarebbe passata più in fretta?
Trascorse un giorno, poi un altro, ed un altro ancora. La tempesta non cessava, sembrava proprio essersi inchiodata sul faro di Ar-Men.
Iniziammo ad essere preoccupati e di cattivo umore.
La sera del ventotto ottobre (potevamo ancora resistere per due – tre giorni con il cibo in dotazione) si era chiacchierato per un bel pezzo - vuoi per dimenticare l’appetito (date le razioni moderate che ci eravamo imposti), vuoi per rincuorarci dall’ isolamento forzato, dai rumori assordanti, dal timore che il faro cascasse giù come un birillo, e ovviamente per trovar modo di prendere sonno – Guillame si mise a raccontare (forse non casualmente) un’incredibile storia, di una volta in cui questi e due suoi vecchi amici pescatori, Renaud Barbier e Bastien Lacroix, erano partiti una notte d’estate a bordo della piccola chasse-marée “Medùse”, in proprietà di Bastien, il più anziano dei tre.
Dopo circa tre ore di navigazione in alto mare, erano finiti dentro ad una tempesta proprio come questa, che s’era fatta all’improvviso, e nel mezzo di essa, le vele s’erano inevitabilmente strappate.
Poche ore dopo, per altra sfortuna erano incappati in bonaccia, e alla fine della giornata erano stati trascinati via da un’ insidiosa corrente che li aveva portati lontano, distanti chissà quante miglia e miglia dal porto e dalla costa più vicina.
Quanto a prendere pesci, nemmeno a parlarne. Nessuna barca era in vista, né una nave per un possibile soccorso; la corrente li conduceva sempre più al largo, ed era divenuto anche vano il tentativo di orientarsi. Il sole di quell’estate all’indomani prese a picchiar forte sulle loro teste come un martello da fabbro che batte furiosamente l’incudine, dalle dieci del mattino sino alle cinque e trenta del pomeriggio, e ciò si ripetè per i giorni a seguire.
I tre pescatori s’erano imbarcati con una modesta ma sufficiente riserva d’acqua da bere, ma con poco da mangiare, credendo verosimilmente di far buona pesca e rincasare presto come avevano sempre fatto in passato.
Ma quella volta non andò così.
Trascorsero due giorni, poi altri due, e poi altri in alto mare, senza alcun vento buono per tornare indietro, sebbene con le vele che s’erano rammendate alla meglio.
Erano rimasti isolati in pieno oceano per dodici giorni, in preda alla fame, alla sete (in mare aperto c’è soltanto acqua salata, e quella non puoi affatto berla), e a quel fuoco che bruciava sulle loro teste durante il giorno; poi, sera per sera venivano finiti e sfiniti dall’umidità che gli entrava nelle ossa, tanto da far male.
Ormai, a causa della stanchezza fisica e morale, avevano perso il conto dei giorni e la speranza di restare vivi.
Un mattino, sopraggiunta l’alba, Guillame e Renaud si accorsero che Bastien se ne stava fermo da un pezzo, con gli occhi chiusi e piegato su sé stesso come un sacco vuoto, senza pronunciare una sola parola da chissà quanto tempo.
Guillame rivolse un’occhiata al giovane Renaud, come a cercare ad intendersi.
Bastien era tra di essi il più vecchio e il più malandato, e comunque, in quel momento, il più debole di tutti e tre.
Stavano morendo di fame.
“Bastien…?”, chiamò Renaud, in attesa di una reazione. Nulla.
Bastien non rispose. Allora lo chiamarono ad alta voce, più e più volte, per provare a svegliarlo. Niente. Non si muoveva affatto. Forse dormiva profondamente.
Era già morto? E’ probabile che quel poveraccio fosse più di qua che di là, e magari, respirasse ancora, sebbene non avesse più le forze per rispondere.
Guillame però all’improvviso tirò fuori il coltello, si avvicinò a Bastien, e lo colpì dritto al cuore. Bastien non emise un gemito. Nessun lamento. Adesso doveva essere proprio morto.
Renaud rimase paralizzato. Non avrebbe mai immaginato niente del genere, ma era accaduto l’orrore davanti ai suoi occhi.

- Cosa stai a guardare? Forza, Renaud, aiutami a spostarlo! – gridò Guillame, agitando la lama grondante di sangue.
- Guillame…che cosa…cosa hai fatto…? –
- Vuoi morire anche tu, Renaud? Vuoi forse morire di fame? Fai pure! Io no! O lui, o noi!

Non mangiavano da giorni e giorni. Il mare sembrava essersi totalmente svuotato, niente pesci.
Come avrebbero fatto a sopravvivere?
Bastien divenne la risposta.
Dopo un’ora di indecisione e tormento, quando la stanchezza, l’arsura, il fuoco intenso del sole, e i morsi allo stomaco tornarono fortemente a farsi sentire, Guillame, decise di mangiare Bastien.
Tagliò alcune parti della gamba, e una parte di questa la porse a Renaud.
Renaud non riuscì neppure a guardare, in preda al disgusto e alla nausea.
“Guillame, sei un maledetto assassino!”, urlò Renaud, piagnucolando.
Guillame non vi fece caso. Non aveva più importanza. Si nutrì.
E alla fine, alla fine si nutrì anche Renaud.
Trascorsero altri due giorni in mare aperto, e sebbene ormai privi di speranza, Guillame e Renaud vennero avvistati dalla Vanguard, un vascello della marina militare francese, che navigava proprio in quelle acque, e così i due naufraghi, sebbene in pessime condizioni, furono miracolosamente tratti in salvo.
Bastien? Era morto, dissero, caduto in mare durante la notte. Non si erano accorti affatto, nessuno dei due avrebbe potuto accorgersene, stanchi e sfiancati com’erano. Non avrebbero potuto salvarlo.
La barca era stata ripulita per bene con l’acqua del mare, cosicchè non trovarono tracce di sangue che lasciassero sospettare qualcosa.
Guillame e Renaud ritornarono a casa. Era tutto finito. Erano vivi.
Così raccontò, - o meglio dire - confessò Guillame. Si erano salvati.
S’era soltanto trattato di scegliere se vivere o morire. E scelsero di vivere.
Il “sacrificio” di uno, per la salvezza degli altri.
Giusto o ingiusto? Quella notte non avrei saputo rispondere, né avrei potuto giudicare. Ma di certo era orribile.
“Survivre”, “Survivre”, ripetè Guillame durante il suo racconto - senza mostrare particolare emozione – forse per giustificarsi ed assolversi da quel che di terribile aveva commesso, e di cui era pienamente consapevole.
Gli chiesi perché me l’avesse raccontato, e se altri oltre me e Renaud conoscessero questa storia.
Rispose: “Perché…ne avevo bisogno. No, nessun altro la conosce.”
Poi Guillame si girò su un fianco, fece un lungo sospiro.
“A domani, Clèment, concluse.
Bastien era scomparso, e quel che ne era rimasto, era finito giù nelle profondità dell’oceano, ingoiato dai pesci. Amen, e pace a Bastien.
Guillame era qui, a far la guardia con me, in questo posto dimenticato da Dio, ed ora anche noi eravamo a corto di tutto.
“Cos’altro succederà? – mi chiesi, prima di addormentarmi.

Diario del faro, 31 Ottobre 1913.

Ieri mattina Guillame ha costruito una sorta di trappola, e usato del pesce essiccato che avevamo in dispensa, come esca per attirare i cormorani. In effetti, ha funzionato, la fortuna è stata dalla sua.
Guillame non è andato tanto per il sottile. Ne ha catturato uno, e lo ha ucciso senza alcuna esitazione. Lo ha fatto in pezzi, e lo ha cucinato.
Con estrema difficoltà mi trovo ad ammettere che l’odore era buono, e la carne, a vederla, non pareva male, e c’era da mangiare sufficientemente per entrambi.
Ma pur essendo anch’io parecchio affamato, ieri non sono riuscito a mangiare.
I cormorani mi hanno fatto compagnia, per vent’anni. Non avevo mai pensato d’esser costretto a mangiarli per poter sopravvivere. Non ce l’ho fatta.
Dovrò forzarmi,, ormai non c’è più niente da mettere sotto i denti.
Tuttavia da stamani i cormorani sembrano scomparsi, mi chiedo se sia soltanto un caso o se siano invece spaventati dalla sorte che potrebbe toccar loro per mano di Guillame.
Il tempo è pessimo, e non accenna a migliorare. Quindi, a meno che la fortuna non giri dalla nostra parte e si riesca a pescare qualcosa, le cose presto si metteranno molto peggio.
Le scorte del nostro deposito finiranno oggi, tutt’al più domani; nessuno aveva mai pensato che potesse accadere un così lungo periodo di permanenza.
Guillame oggi è più silenzioso e solitario del solito, ed è irritabile per un niente.
Non ascolta più le mie direttive, sembra proprio non sentire la mia voce. Se ne sta per i fatti suoi, ad osservare il mare. Ho il timore che stia perdendo la la testa.
E penso ovviamente, a quel che gli è già accaduto. Non lo dimentico.
Dunque non è affatto un bene essere costretti a rimanere qui, senza poter andare da nessun altra parte.
Senza l’arrivo del battello…non voglio nemmeno pensarci.
Dobbiamo tornare al più presto sulla terraferma, e mangiare qualcosa.
Non so cosa fare.
Ultime note: scorte dei viveri in esaurimento. Il telegrafo è fuori uso.
Non resta che aspettare, aspettare che il tempo migliori.

III

I giorni passavano, l’uno dietro l’altro. Eravamo giunti a ben venti giorni di pessimo tempo (dei quali, gli ultimi dieci senza più viveri), ed eravamo stremati, senza più molte forze.
Niente, niente in quei maledetti giorni avrebbe potuto tentare di avvicinarsi ad Ar- Men, senza finire travolto dalle onde ed affondare in pochi secondi.
Di tanto in tanto speravamo di ricevere un messaggio dal telegrafo, per ricevere in qualche modo compagnia e conforto, e si attendeva e sperava pazientemente che al più presto smettesse la tempesta, poiché una così non si ricordava da più di trent’ anni.
Da un pezzo dovevo occuparmi io di tutto, ma questo non mi preoccupava molto, quanto più la salute mentale di Guillame, che era iniziata a vacillare.
Iniziai a credere seriamente che Guillame avrebbe potuto commettere nuovamente quel che già era stato in grado di fare, cedendo al più primordiale e brutale istinto di sopravvivenza, pur di sopravvivere egli stesso in questo luogo; pertanto, giorno e notte, presi a guardarmi le spalle, e soprattutto la notte mi chiudevo a chiave nella mia stanza, barricando la porta con quel che avevo a disposizione, almeno per sentirmi un po’ più al sicuro.
In realtà non temevo Guillame come il più forte tra noi. Temevo che fosse più determinato e affamato di me. E purtroppo, non mi ero sbagliato.
Giunse la sera dell’undici novembre, mare forza nove. Sembrava che si fossero aperti i cancelli dell’inferno. Cominciai a dubitare che il faro, sotto la furia dei marosi, potesse reggere ancora per molto.
Alle ventitrè me ne stavo di vedetta in cima alla lanterna, le onde impazzavano furiosamente. Guillame tentò di sorprendermi, dopo aver risalito silenziosamente la scala a chiocciola, perché non mi accorgessi della sua presenza.
Ruiscii miracolosamente a non farmi ammazzare, grazie al riflesso del vetro.
Avevo appena avuto il tempo e l’istinto di voltarmi, quant’era bastato per fermargli la mano che brandiva il coltello, puntato proprio dritto alla mia schiena, ma poi quegli, per via della forza e la determinazione che ne avevo immaginato, era riuscito a colpirmi alla gamba sinistra, all’altezza del femore, e la lama mi era penetrata per l’intero.
Tirai fuori il coltello, e a mia volta, lo colpii, ma soltanto per difendermi. Lo colpii sul fianco, e lo spinsi via.
Guillame si rialzò, più rabbioso di prima. Sembrava impazzito.
Fuggii all’esterno, sul ballatoio, zoppicando e tentando di muovermi in fretta per quanto mi era possibile. Trascinavo la gamba, sembrava quasi di non averla.
Mi accorsi che le onde erano divenute sempre più alte.
Guillame mi raggiunse fuori, si teneva una mano sul fianco. L’avevo ferito, ma questo non era bastato a farlo desistere. Voleva finirmi a tutti i costi.
Giunsero altre onde, sempre più alte, più potenti. Ormai erano arrivate quasi fin quassù, ed a breve, pensai, avrebbero colpito anche noi.
-Fermati Guillame, fermati…dobbiamo scendere, o moriremo! – gli urlai più che potei, nel mezzo di quell’incredibile frastuono, ma lui non mi ascoltava più, non sentiva nient’altro che l’istinto feroce dei morsi della fame.
Eravamo entrambi grondanti d’acqua e di sangue, nel mezzo di una lotta spietata e surreale per sopravvivere, mentre il mare, anch’esso, stava tentando in tutti i modi di ammazzarci in un colpo solo.
Finii nuovamente per terra, la gamba aveva ceduto, non riuscivo più a tenermi in piedi.
Guillame era quasi sul punto di raggiungermi. Sono morto, sono morto, pensai.
Eccomelo addosso, ecco, per me è finita. Sono il prossimo Bastien, sono il prossimo a fare la stessa fine.
Guillame era giunto a meno di quattro metri da me, ma ora si muoveva più lentamente, per via della ferita, che adesso sembrava provocargli un forte dolore. Riuscii con tutta la mia disperazione e le forze residue a trascinarmi fino alla porta. Dovevo rientrare subito, provare almeno a chiuderlo fuori.
Voltai appena la testa, adesso era ad un paio di metri da me, ancora in piedi, ansimante e infuriato, coltello in mano.
Sto per morire, sto per morire.
In quel mentre, vidi sopraggiungere l’onda madre.
Era immensa, impressionante. La più spaventosa mai vista in tutta la mia vita, la più grande di tutte. Un muro d’acqua alto almeno quaranta metri.
“Lo schiaffo di Dio….”, lo chiamai, sgranando gli occhi.
All’ultimo secondo riuscii a trascinarmi velocemente all’interno, nonostante il dolore.
L’onda si abbattè con un incredibile boato, il faro scomparve, come inghiottito.
Scomparve la luce, la notte, le stelle, la luna, le nuvole, il cielo. Non si vide più niente.
Non c’era più nulla di visibile intorno a me, nient’altro che acqua, e acqua ovunque.
Trattenni il respiro, non so per quanto tempo. Quando rialzai finalmente la testa per respirare, l’onda s’era appena ritirata.
Cercai subito Guillame, ma questi non c’era più, era stato spazzato via.
Guillame doveva essere morto.
Buon Dio, è finita, è finita.

**** **** **** ****

Diario del faro, ultima pagina, 13 Novembre 1913.
Dopo ventitrè interminabili giorni, la tempesta finalmente è terminata.
Oggi ho sistemato la lanterna, ho salvato il faro.
Sono riuscito a riparare tutto in due sole ore, con i pochi pezzi di ricambio ch’erano rimasti, evitando il naufragio di una nave lungo la costa.
Ho aggiustato il telegrafo, e sono riuscito a chiedere i soccorsi. Domani – mi hanno risposto - verranno a prendermi. Adesso non so se vivrò a sufficienza per raccontare quello che è accaduto, ma non importa.
Mi troveranno in cucina, a terra. Non ho più forza per alzarmi e camminare.
Trascinandomi con difficoltà, sono arrivato fin qui. Ho preso la mannaia, con un unico, un unico terribile pensiero che m’era entrato in testa, pensando a Guillame, se mai l’avessi ritrovato, se per caso fosse stato ancora vivo, se soltanto l’avessi avuto tra le mani…non ne avrei avuto pietà l’avrei ucciso, avrebbe fatto lui stesso la fine del povero Bastien Lacroix.
Ma poi mi calmai. Non ero un assassino, non lo ero mai stato.
Sono un essere umano. Guillame era stato spazzato via dall’onda, e vidi dov’era finito.
Il suo corpo, investito dalla potentissima onda, era precipitato alle spalle del faro, sfracellandosi sugli scogli, dopo un volo di quasi trentasette metri.
Guillame LaFerriere è morto, ma non sono stato io. E soprattutto, il suo corpo è intatto. Non gli ho fatto niente, non l’ho né ucciso, né l’ho mangiato. Mi sono soltanto difeso.
Ho mantenuto l’integrità del mio spirito, la bontà della mia natura, quale essere umano.
So adesso con piena coscienza che l’universo ha misteriosi percorsi, e disegni per tutti noi.
L’universo ha un suo imperscrutabile piano, una forma di giustizia, e un equilibrio che non sempre riusciamo a comprendere.
Un equilibrio che, se turbato, quale che sarà il tempo occorrente, deve comunque ristabilirsi.
Ora ne sono certo. Tutto ha un senso. E ne avrà avuto per Renaud e Bastien, e così probabilmente per Guillame, ripagato con la stessa moneta, con quella “morte per morte” (è stata l’ inevitabile legge del karma?), per la sua brutta fine.
Era questo che doveva accadere. Era solo questione di tempo, tutto era rimasto in sospeso.
Alla fine, ogni cosa s’è rimessa in pari, è stato saldato il conto.
Forse da sempre esiste un disegno anche per me. Sorrido al pensiero che il buon Creatore abbia fatto di tutto in questi giorni, per mettermi a dura prova.
Guillame ha pagato a caro prezzo con la sua stessa vita l’orrore commesso molto tempo fa.
Ma io ho non ho fatto niente. Ho pregato invece, ho pregato perché Dio mi sostenesse.
Se mai dovessi morire, vi giuro che sono in pace con me stesso.
Ultimi appunti.
Non c’è niente da mangiare.
Ieri mattina è finita anche l’ultima scorta d’acqua piovana.
Un bacio, Chlotilde. Se nel caso non dovessi farcela, ricorda: tuo padre è stato un brav’uomo.

**** **** ****

Clèment Archambeau, quasi dissanguato, dopo ventiquattro giorni di isolamento ( dei quali più della metà, senza viveri) per via della tempesta, fu salvato il quattordici novembre 1913, e una volta portato sulla terraferma, venne ricoverato in gravi condizioni per via della profonda ferita e della prolungata astenìa.
Con l’arrivo dei soccorsi, era giunta anche Chlotilde, l’unica figlia di Clèment.
Clothilde gli disse che ce l’avrebbe fatta, che lo avrebbero riportato a casa.
Clèment, per un incredibile miracolo, o semplicemente per sua fortuna, riuscì a riprendersi.
Una volta a terra, raccontò i fatti accaduti alle autorità locali dell’île-de-Sein, ed in base al suo resoconto, al diario rinvenuto, ed alle prove raccolte, quegli era stato pienamente creduto, ed aveva persino ricevuto un encomio, quale eroe s’era effettivamente dimostrato, essendosi prodigato (nonostante le condizioni fisiche) con estremo coraggio a preservare il faro e così il destino di tutte le navi che in quei giorni avrebbero traversato al largo della punta estrema della costa della Chaussée de Sein, impedendo così che queste naufragassero tra gli scogli.
Dopo due mesi di convalescenza, una volta guarito, Clèment Archambeau chiese di poter ritornare al faro di Ar-men, “l’inferno degli inferni”.
In esito alla sua domanda, dopo una breve formale istruttoria, fu riammesso in servizio con un pieno “nulla osta”, e lì continuò a svolgere il suo lavoro, fino alla fine dei suoi giorni.

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Maurizio Anfossi
Per non dimenticare. Le condizioni di vita, in un manicomio, erano ben peggiori di quelle di…

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  • "L’importanza dei nonni" di Elisa Bortolus
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  • "Ti aspettavo" di Emily Ameto
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  • "Omnia Tempus Habent" di Maurizio Anfossi
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  • "L’Inferno degli inferni" di Antonio Blunda
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