Le ultime luci del giorno colorano il cielo di un arancio intenso. Guardo il sole tramontare all’orizzonte, la brezza primaverile soffia tra i rami dei cipressi, nel silenzio irreale di questo posto. È raro che non ci siano turisti quassù a Castel San Pietro, è raro trovarsi in questo posto che avevamo eletto come nostro in totale solitudine.
Il mio sguardo viene catturato da Venere, la stella del tramonto, la stella che mi ricorda te. Tu, Ester, che mi ripetevi con modestia come il tuo nome derivasse da Ishtar, la dea assiro-babilonese dell’amore e della fecondità, la dea che poi è stata assimilata ad Afrodite e nella mitologia romana a Venere. Tu, la ragazza conosciuta in stazione a causa di un treno soppresso e che poi è diventata la costante della mia vita.
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Se ripenso al nostro primo incontro ancora mi sembra incredibile come siano andate le cose. Un semplice segnale acustico e poi la solita voce registrata che comunicava che la mia Freccia per Bologna era stata cancellata per un guasto sulla linea ferroviaria e con lei anche tutti gli altri treni che compivano la stessa tratta. Eravamo una accanto all’altra a guardare sgomente il tabellone delle partenze che improvvisamente si riempiva di “Soppresso”. Tu con due valigie più grandi di te, io con il mio zainetto da pendolare. Ti eri voltata, eri scoppiata in una risata isterica.
«È destino che io non lasci questa città» avevi detto a nessuno in particolare ma io ero lì ad ascoltarti, rapita dai tuoi occhi color ambra.
«È destino che io non torni a casa»
Ti eri accorta di me, mi avevi sorriso e in quel momento ho capito di essermi innamorata.
«Ti va un caffè mentre scopriamo quali combinazioni di treni prendere per arrivare lo stesso a Bologna?»
Avevi accettato, ti avevo aiutata a portare i bagagli fino al bar della stazione. Avevamo ordinato due macchiati, avevi riso nello scoprire che come te anch’io preferivo spendere quei venti centesimi in più per risparmiare sullo zucchero. Il cameriere che ci aveva servite pensava che ci conoscessimo da sempre nel vederci così affiatate, lo aveva detto ad alta voce ed era impallidito quando gli avevi risposto.
«Ci siamo appena incontrate, ma forse era destino che succedesse. Le anime gemelle sono destinate a trovarsi, prima o poi»
Si era allontanato in fretta e tu mi avevi guardata.
«L’hai sconvolto con la storia delle anime gemelle»
«Ho dovuto, ti stava rivolgendo troppe attenzioni»
«E questo cosa c’entra?»
Eri arrossita, avevi abbassato lo sguardo sulla tazzina che avevi svuotato poco prima. Eri rimasta a contemplare il fondo di caffè per minuti, in silenzio, con quel ricciolo ribelle che ti era scivolato davanti al viso. E nel frattempo io contemplavo te, conscia che ti avevo fatto quella domanda per nascondere me stessa e quello che stavo iniziando a provare. Poi i nostri occhi si erano incrociati di nuovo, un timido sorriso era comparso sul tuo volto.
«Credi nei colpi di fulmine?»
«Intendi quelli durante i temporali che ti ustionano e ti fanno venire un arresto cardiaco?»
Avevi riso.
«No, quelli che arrivano a ciel sereno nelle stazioni e ti fanno capire che stavi rincorrendo una vita che non volevi»
«Quelli che improvvisamente ti fanno battere il cuore per una sconosciuta?»
«Quelli che ti fanno capire che sei innamorata di una persona che conosci da appena dieci minuti»
Avevi proteso la mano per stringere la mia ed eravamo rimaste a guardarci in silenzio.
L’avevo rotto io.
«Sì, ci credo»
Mi ero allungata sul tavolino, tu ti eri avvicinata a me e, come in un film, ci eravamo baciate in quel bar della stazione. Quando ci eravamo separate Bologna era già diventata solo un ricordo. Avevamo pagato ed eravamo tornate ai tabelloni delle partenze. Dieci minuti e un treno per Innsbruck si sarebbe messo in moto. Non avevamo avuto nemmeno bisogno di comunicare, ci era bastato uno sguardo per capire che ad entrambe bastava prendere il primo treno per scappare insieme. E così avevamo fatto.
Innsbruck, poi Vienna, Berlino, Praga. Sempre in treno, sempre noi. Ai miei genitori avevo detto che non sarei rientrata a casa per concentrarmi sulla stesura della tesi, ma in realtà stavo girando l’Europa con te e la tesi la scrivevo quando riuscivo a smettere di guardarti.
Ricordo la prima notte nella stanza di un hotel di una nota catena low cost. Mi guardavi con quell’accenno di sorriso che non ti ha abbandonata nemmeno per un istante. Ti avevo abbracciata, eravamo finite arrotolate nelle lenzuola. La prima di migliaia di volte in cui iniziavamo a conoscerci davvero. La prima di migliaia di volte in cui, tra le tue braccia, mi ero sentita finalmente al posto giusto nel mondo. Tu mi avevi detto che anche per te era lo stesso e me ne rendevo conto quando affondavi il viso nel mio petto e i tuoi occhi brillavano nel vedere che ti stringevo sempre più forte per non lasciarti andare.
Eravamo tornate in Italia dopo cinque mesi e infinite videochiamate con il mio relatore. Eravamo tornate solo perché dovevo laurearmi, il programma era di risalire su un treno la sera stessa della proclamazione. Eravamo uscite dall’aula magna una accanto all’altra, avevo stappato lo spumante con te che mi cingevi la vita. Ci eravamo guardate mentre intorno a me le persone festeggiavano, mi avevi sistemato la corona d’alloro che pendeva da un lato e avevi fatto uno dei tuoi stupendi sorrisi.
«Ti amo»
«Ti amo anch’io»
«Mi permetti di fare una pazzia?»
«Facciamo pazzie da quando ci conosciamo e sono stati i cinque mesi più belli della mia vita»
Il tuo sorriso si era fatto se possibile ancora più grande, i nostri nasi si erano sfiorati per un istante, i tuoi occhi brillavano come dopo la nostra prima notte insieme. Avevi preso una mia mano tra le tue e ti eri inginocchiata davanti a me, avevamo riso entrambe quando stavi per cadere a causa dei tacchi alti. Poi avevi tirato fuori una scatoletta dalla giacca e quello che ci succedeva intorno era scomparso, offuscato dalle mie lacrime.
«Mi vuoi sposare?»
Avevo preso il tuo viso tra le mani per baciarti ancora prima di risponderti. Non ne avevamo mai parlato prima, sembravamo aver dato per scontato fin da subito che avremmo passato l’intera vita insieme. Non ho mai pensato di lasciarti andare.
Mi avevi asciugato le lacrime, un bacio alla volta, con delicatezza. Mi avevi stretta a te ancora una volta, il verde smeraldo del mio completo che si confondeva nel rosa salmone del tuo.
«Andiamo via, ti prego»
E l’avevamo fatto, eravamo corse fuori dal cortile dell’università salutando i miei amici che ancora festeggiavano. Avevamo chiamato un taxi, recuperato le valigie nel mio appartamento e prima di cena eravamo di nuovo io e te, in un bar della stazione, a sorriderci sopra due tazzine di caffè macchiato, pronte a ripartire per un nuovo viaggio.
Sette mesi dopo la mia laurea, un anno dopo il nostro primo incontro, su una spiaggia bianchissima della Sardegna ci eravamo sposate. Era stata una cerimonia tra pochi intimi e non c’era stata nessuna cena, nessun ricevimento, perché volevamo partire subito per New York, avevamo in programma il più classico dei coast to coast americano. Due mesi su quelle strade e poi il Canada, l’inverno al Circolo Polare Artico. Eri spaventata che negli igloo ci sarebbe stato troppo freddo e di come sarebbe stato passare le giornate senza sole; ti eri ricreduta il primo giorno.
Ero riuscita a farti innamorare della neve, della montagna, e tu mi avevi fatto scoprire la bellezza del mare, delle isole sperdute nell’Oceano Pacifico. Avevamo girato il mondo, senza mai pianificare nulla, semplicemente presentandoci in aeroporto o in stazione e acquistando i biglietti all’ultimo momento. Eravamo state in tutte le capitali europee, avevamo assaggiato il cibo tipico di metà paesi dell’Asia, ci eravamo bruciate la pelle nei deserti africani e avevamo nuotato nelle acque cristalline del Centro America. Avevamo conosciuto persone da ogni parte del mondo, avevamo imparato parole in lingue e dialetti di cui non sapevamo nemmeno l’esistenza e vestito abiti tipici di tutte le forme e i colori. Ma ovunque andassimo il nostro posto del cuore era rimasto Castel San Pietro, a Verona, la tua città.
Mi avevi portata quassù in occasione del nostro primo anniversario di matrimonio. Eravamo solo io, te, due calici e una bottiglia di vino. E un mazzo di rose rosse, il fiore scontato ma anche l’unico che ti piacesse. Poi ci eravamo tornate ogni anno, per otto anni. Sempre insieme, sempre noi due.
Respiro a fondo e mi perdo a guardare la città sotto di me. I lampioni si stanno accendendo lentamente, Verona si sta illuminando trasformandosi in una città magica, la tua città magica. È come se pensando a te quello che c’è di negativo nella vita scompaia, il buio che ormai riempie la mia esistenza si riempie di luce quando mi parlano di te. Tu hai riempito di luce dieci anni della mia vita, abbiamo passato 3287 giorni, 78888 ore insieme. Penso che il destino abbia giocato con noi dall’inizio alla fine, facendoci conoscere il primo d’aprile e portandoti via da me lo stesso giorno di nove anni dopo. E oggi, primo d’aprile, sono qua, al nostro posto, che guardo il cielo per cercare te.
È un anno che spero di incontrarti in un sogno e al mio risveglio di trovarti accanto a me. Un anno che cerco il tuo profumo negli armadi e che ho smesso di viaggiare perché senza te non mi ricordo più come si fa. È un anno che il tumore ti ha portata via, un anno che vivo di ricordi, ma so che è arrivato il momento di lasciarti andare perché tu continuerai a vivere in me in eterno. Sei la mia anima gemella, lo eri prima di incontrarci e lo resterai sempre, ma non posso più ballare sul filo di un ricordo.
Devo andare avanti.
Sarai sempre con me Ester ed è per questo che ho il tuo nome tatuato addosso, perché sei stata e sarai la persona più importante della mia vita.
Mi stringo nella tua felpa preferita, quella che mi rubavi sempre, e dopo un ultimo sguardo alla città mi volto per tornare alla macchina. Per tornare a casa. Cammino lentamente, senza cercarti in ogni passo che faccio. Domani è un nuovo inizio, oggi metto definitivamente il punto a un capitolo della mia vita durato dieci anni, il capitolo con te. Un capitolo intitolato Ester.
«Ehi, hai un accendino?»
Guardo la donna che mi ha rivolto la parola: le è colato il mascara sulle guance, tira su col naso, probabilmente ha appena smesso di piangere ma non sembra darci troppo peso. Le porgo il clipper che avevamo comprato nel nostro primo viaggio per accendere il fornelletto a gas e che ora tengo sempre con me, come un porta fortuna. Lei mi sorride.
«Grazie, io comunque sono Margherita»
«Alessia»
E stringendole la mano ricordo quando mi avevi spiegato il significato del mio nome. Alessia, colei che difende, la protettrice. Proteggerò i nostri ricordi e difenderò fino alla fine la tua memoria, sperando di ritrovarti un giorno chissà dove per stringerci l’una all’altra come quella prima volta nel bar della stazione.
Ma ora devo lasciarti andare.
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